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giovedì, 9 Maggio, 2024
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Made in Italy e stagflazione

Sono mesi che si parla di stagflazione come logica conseguenza della pandemia e della terribile guerra in Ucraina. Un termine che risulta drasticamente calzante e fuori luogo allo stesso tempo, in un momento in cui il mondo intero – settore imprenditoriale in primis – avrebbe bisogno di messaggi ed espressioni ben più positive e confortanti.
Coniato a metà degli anni Sessanta dal Ministro delle Finanze inglese Lain Macleod per descrivere la situazione di stagnazione economica e alta inflazione che caratterizzava l’economia dell’Inghilterra di allora, si diffuse a seguito della crisi petrolifera che portò i principali Paesi occidentali ad una condizione inaspettata di bassa crescita e, appunto, di alta inflazione. È quella fase dell’economia, in pratica, in cui sono presenti in contemporanea ondate inflazionistiche e stagnazione.

La situazione di oggi, tuttavia, è ben diversa. Usciamo dalla più forte deflazione degli ultimi settant’anni, la ripresa appare costante anche se frammentata e le banche centrali godono di un potere che certamente non avevano in passato. Una vera cura per la stagflazione è difficile poiché mentre politiche monetarie espansive favoriscono l’inflazione, quelle restrittive ne deprimono ulteriormente la crescita. Ma va detto che per quanto il Fondo Monetario Internazionale riveda verso il basso la crescita del PIL mondiale, portandola al 3,6% nel 2022, è anche molto ottimista in merito. Si prevede infatti un tasso inflazionistico alto per un periodo “più prolungato del previsto”, ma con un forte ridimensionamento già nel 2023: in Italia l’inflazione scenderebbe dal 6,5% al 2,5%, in Europa dall’attuale 7,5% al 2,3%, negli Stati Uniti dall’8,5% al 2,9%. Gli aumenti di prezzo, del resto, si stanno estendendo a tutto il mondo, portando ad una consapevole rimodulazione degli investimenti, soprattutto nella produzione e nella logistica, e della circolazione dei prodotti. Così come il costo stesso delle materie prime non potrà certo aumentare per sempre.

Porrei l’attenzione piuttosto sul rischio di stagflazione dell’economia cinese. Un ulteriore blocco dei consumi in Cina, a causa delle restrizioni dovute alla nuova crisi pandemica, mentre il costo delle materie prime aumenta, avrebbe delle ripercussioni gravissime sul mercato globale e sulla Cina stessa che, ricordiamo, conta il più grande volume di commercio del pianeta. Situazione già diversa in Giappone, che pur facendo ancora fatica a uscire dall’incubo dei contagi, ha un’economia più controllata e meno esposta a rischi derivati dalle altalene della globalizzazione. Sono due mercati importantissimi per il nostro Paese per cui sarà molto importante seguire l’andamento dei prossimi sei mesi.

Come si colloca in questo scenario il valore e la circolazione del Made in Italy? Quali contromisure dovrebbero prendere le imprese italiane? Su cosa dovremmo puntare?

Che il mondo non sia e non sarà più quello a cui eravamo abituati fino a pochi anni fa è una certezza. Che sarà sempre più complicato, in mancanza di risorse finanziarie, gestire i processi produttivi e accedere a canali preferenziali di distribuzione, non più solo per la concorrenza ma per le difficoltà economiche oggettive, ne è un’altra. Ma sono altrettanto certo che una risposta importante a tutto questo l’Italia possa darla più di chiunque altro e che possa farlo difendendo tre pilastri della propria storia imprenditoriale: la qualità, la tradizione e la tutela della territorialità come garanzia di autenticità del Made in Italy.

Grazie alle tecnologie di cui disponiamo, siamo entrati da tempo in un’era di forte selezione e di ricerca della veridicità di ciò che acquistiamo. Siamo sempre più attratti dal valore esperienziale che ci offre un nuovo prodotto o un luogo che visitiamo. Per quanto ci nascondiamo dietro curate maschere di superficialità pur di apparire come gli altri vorrebbero, dipendiamo sempre di più dal valore reale, autentico, degli oggetti di cui ci circondiamo, perché sono quelli che alla fine parlano di noi. Più mi ripeto questo, più mi rendo conto del potenziale di cui l’Italia dispone perché, in un modo o nell’altro, tutte le strade portano al Made in Italy.

Esiste una crescente fetta di consumatori e di nuovi ricchi – solo in Cina, ad esempio, nel 2020 sono arrivati a 100 milioni – per la quale mangiare bene significa recarsi in ristoranti conosciuti o frequentati da personaggi famosi; vestire bene significa indossare abiti firmati o “ben consigliati”; viaggiare significa andare nei luoghi più noti. Come esiste un’ampia fascia di consumatori che predilige l’unicità di un prodotto o di un luogo, l’esclusività di un’esperienza, l’autenticità di un tessuto o di un abbinamento. Tutti fattori che, se andiamo a vedere, riconducono inevitabilmente all’Italia e al Made in Italy. Cosa che vale ultimamente per gli italiani stessi, che vanno riscoprendo tutta la bellezza e la ricchezza del proprio Paese. Non si tratta, come ripetono alcuni, di approfittare di un’opportunità determinata da una crisi. Qui si parla della pura necessità di riscoprire un patrimonio che ci è stato offerto per nascita. Di ricoltivare, con sacrificio e dedizione, valori e principi basilari che fanno parte da sempre del nostro DNA. È con questo spirito e con questi strumenti che possiamo approcciare in maniera vincente i mercati internazionali e affrontare le nuove dinamiche determinate dalla stagflazione. È comunicando l’Italia secondo questi termini che torneremo ad avere quel riscontro di qualità e di gradimento da parte del pubblico di tutto il mondo che ha reso  l’Italia il Paese tanto amato e declamato negli anni addietro.

di Riccardo D’Urso


 

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