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martedì, 14 Maggio, 2024
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Il Museo del Vino di Pachino di Emanuele Nobile

Il volto inaspettato della memoria

Tra i tanti tesori scovati durante il TdI-Tour nel Sud-Est della Sicilia, uno in particolare li racchiude tutti: “l’incontro”. E non solo perché l’Italia è ricca di storie e volti straordinari che meritano di essere visti, ascoltati e raccontati, ma perché il tesoro dell’incontro è come una matrioska il cui contenuto, svelato strato dopo strato, supera qualsiasi aspettativa.
Quando abbiamo incontrato Emanuele Nobile, ad esempio, sapevamo che ci avrebbe condotti all’interno del suo Museo del Vino di Pachino, e noi presupponevamo di sapere, in qualche modo, che aspetto avrebbe avuto questo museo. Invece non eravamo affatto preparati.

«La mia famiglia non ha vissuto quello che altri vivevano, non dovevamo lavorare i vigneti, ma ho voluto conservare quei pezzi e quegli strumenti che io, da spettatore, ho visto» – Emanuele Nobile si svela in questo modo ai nostri occhi, amplificando la sensazione di stupore. Prosegue: «La tenerezza di quei coetanei miei, mentre io mangiavo il panino con la mortadella e la volta in cui sono sceso e mi hanno visto e mio padre mi disse di non mangiarlo davanti a loro. Loro che venivano a rubare la biada dei muli e dei cavalli pur di mangiare qualcosa».
Emanuele Nobile, “Lele”, è il fondatore del Museo del Vino di Pachino da lui stesso intitolato “Da metà ’700 fino all’arrivo dell’energia elettrica”. Il museo, che ha ottenuto il riconoscimento di eccezionale interesse etnoantropologico da parte della Soprintendenza siciliana, è un luogo del tutto diverso da quello che ci eravamo immaginati. E questo per due motivi, il modo in cui ha avuto origine e ciò che contiene.

La famiglia di Emanuele Nobile possedeva distese di vigneti ed era produttrice del vino di Pachino. Fu il nonno di Emanuele che nel 1916 diede avvio all’attività e il luogo in cui sorge il museo è proprio la parte più antica dell’azienda, la cantina, messa in piedi nel 1916.
Il lavoro di gran lunga predominante a Pachino, dal ’700 fino alla metà del ’900, era infatti rappresentato dalla produzione del vino.
Erano i primi albori dell’industria vinicola; il vino, che si era sempre conservato in botti di legno, per la prima volta veniva travasato in vasche di cemento con portelle in ghisa. In quegli ultimi anni Lele era ancora un bambino, ma ha impresse nella memoria quelle immagini di vita contadina così diverse dalla realtà che lui stesso viveva. La fatica del lavoro nei campi, quei gesti metodici ma necessari a “far funzionare” le cose compiuti dai suoi coetanei, dalla gente che passava la vita nelle vigne a lavorare, sono immagini che lo hanno accompagnato nel tempo e che lo hanno spinto a prendere un’importante decisione: la necessità di custodirle, di non lasciarle scivolare via dalla memoria.
Per non perdere quei volti che hanno segnato la sua infanzia, Lele ha girato di casa in casa bussando letteralmente porta a porta, alla ricerca di foto in bianco e nero che ritraessero frammenti di cultura contadina dell’epoca; finora è riuscito a raccoglierne 150.
Ma non si è fermato qui. La collezione del museo, infatti, raccoglie più di 500 pezzi appartenenti alla vita del secolo scorso e legati sia alla produzione del vino, quali la pigiatura dell’uva, la preparazione del mosto, la tritatura e la misurazione, sia gli oggetti che popolavano le case dei contadini dell’epoca, i mezzi di trasporto, persino i pennacchi funebri che venivano messi ai cavalli in segno di lutto. Quindi carretti, torchi, botti in legno, attrezzi da lavoro, pentole, zappe, vasche, biciclette.

E così Lele è riuscito a riacciuffare il passato, a restituirci intatto un pezzo di storia, a raccontarci in questo modo chi era lui, chi erano gli altri, chi eravamo anche noi.

– di Valentina Alfarano

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