È il sottile equilibrio tra il dire e il fare che distingue l’impresa dall’imprenditore. Esiste un modo di dire le cose e un modo di farle, il risultato che si ottiene – nel bene o nel male – dipende proprio dalla compatibilità o meno delle proprie azioni con le parole che si sono spese. Il mondo, oramai da tempo, è frutto più di cambiamenti e di falsi trionfi dovuti al non mantenimento di un impegno da una parte o dall’altra, piuttosto che dal rispetto di pianificazioni e condivisioni costruttive comuni. Come se adempiere onestamente ad un contratto sia segno, ai tempi attuali, di debolezza e di scarsa capacità manageriale. Vince in pratica chi è più furbo, chi parla molto e non sa fare, scaricando sul sistema cause e conseguenze. Così, tra un’impresa che nasce e una che muore, gli imprenditori attendono all’angolo qualcosa o qualcuno cui nemmeno riescono più a dare un nome ma che profumi – o puzzi, non importa – di affare e di moneta contante.
Storie che si ritrovano dappertutto, in Italia come in Giappone, e che tendono a disegnare un mondo che dietro la finta facciata della globalizzazione nasconde in realtà una giungla ostile in cui combattono per la sopravvivenza persone, animali e cose. Un problema davvero grave se fosse così ovunque e valesse per chiunque. Ma non lo è. Come non si può più continuare a credere che dietro una proposta allettante o un bel progetto di sviluppo culturale o commerciale ci sia un sistema intricato o il possibile malaffare. La colpa è, senza dubbio, della tendenza diffusa a nascondersi dietro altre persone e a far pensare a tutti l’esatto contrario di ciò che in realtà avviene, come se si volesse promuovere l’idea – assolutamente errata – di una radicata coscienza truffaldina in giro per il mondo e, in particolare, nel nostro Paese.
Dosiamo allora le parole e firmiamo in prima persona le nostre opere, facendo del nostro essere costruttori di valore l’anima stessa dell’impresa. Diciamo 5 per fare 5 e se facciamo 3 non temiamo il giudizio di una società in attesa solo di punire, alziamo la testa, mostriamoci agli altri, diamo fiducia alla gente e ripartiamo da quel 3 per farne un 6, ci avremo guadagnato tutti. Ma firmiamo quel 3 con il nostro nome, non lo gettiamo sugli altri in cerca di capri espiatori. Assumiamoci la responsabilità dei nostri errori e dei nostri fallimenti e facciamone concime per i campi progettuali del nostro futuro. Se facciamo 10 invece, torniamo a misurare le parole per un attimo e restiamo uniti. Il successo, se non calibrato, separa, disgrega, allontana. Il successo vero, quello graduale e condiviso, in cui tornano a convergere l’equilibrio tra il dire e il fare, crea armonia, ispira contatti e apre a scenari di crescita e di sviluppo oltre ogni immaginazione. Ci si rende conto a quel punto che non è una questione di settore culturale o commerciale, è tutto profondamente connesso, attraversa le barriere, le differenze e lega progressivamente un contesto all’altro, come se tutto fosse sempre stato parte di un unico grande disegno.
L’Italia è questo, Tesori d’Italia vuole essere questo: un inestimabile intreccio di connessioni sociali, culturali, artistiche e commerciali che la storia prima di noi ha creato e cablato alla perfezione. Bisogna allontanarsi dall’Italia per distinguerlo a fondo. Bisogna girarla in lungo e largo per capirlo. Bisogna avere il coraggio di affrontarla per assorbirlo. Che Tu sia imprenditore o no, che guidi o che segui, che parli o che agisci, chiedi quel che vuoi al Tuo Paese ma non prenderlo in giro. Pesa i tuoi obiettivi nelle tue parole e quando ti immergi nella bellezza e nella difficoltà dei suoi percorsi, offrigli il tuo bigliettino da visita con nome e cognome e fa in modo che, nel bene e nel male, ti possa sempre riconoscere.
– di Riccardo D’Urso