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Il suono inconfondibile della passione. Gianfranco Iervolino e la poesia “bianca” di Napoli nel mondo

Ci sono tante cose che rendono Napoli una città unica al mondo. Alcune di queste sono note a tutti, altre invece si nascondono nel cuore di ogni abitante di questa straordinaria realtà che porta con sé, una storia fatta di passione e di vita. Sì perché il napoletano vero conosce bene la semplicità della gioia di vivere. Vivere l’attimo, vivere il presente, cercando di sopravvivere, quasi sempre con grande maestria, alle difficoltà che ogni singolo giorno, che ha fatto il Signore, porta con sé. Il sole però è talmente forte, e il cielo così limpido, che viene naturale guardare il mare, la gente e capire che la vita va vissuta sempre con entusiasmo e soprattutto che i sogni si avverano.

Si chiama felicità intrinseca partenopea e non è un luogo comune ma una legge scritta evidentemente da qualcuno che sta un po’ più su, oltre la vetta del maestoso Vesuvio e che ci guarda alcune volte sorridendo. E questa è una parte della filosofia di Gianfranco Iervolino, classe 1974 e un’esperienza unica in fatto di vita, musica del cuore e arte bianca (per noi mortali la vera pizza).

Volto noto della televisione internazionale, lo abbiamo visto al fianco di conduttrici eccellenti e in programmi di alta fascia, soprattutto a carattere culturale enogastronomico. Da Canta che ti passa a Detto, Fatto. Dalla Balivo alla Guaccero, passando per eventi che ne hanno messo in risolato non soltanto l’arte dell’impasto di cui è un Maestro, ma soprattutto il dono della musica che la natura ha trasformato in una voce unica e melodiosa.

Nato come barman, nel 1997 apre la sua prima pizzeria a Pompei. A soli 21 anni, e con una gavetta già importante all’estero (Inghilterra), seppur così giovane, decide di diventare uno studioso delle farine. Da questo stesso studio si apre una linea che lo porterà a diventare docente all’Università ed eccellenza accademica per il Gambero Rosso, connubio che andrà avanti per dodici anni. Da Sorrento, a Como, passando per i più importanti luoghi di piacere del palato internazionali, questo chef dalla voce superba, fa innamorare un pubblico sempre più grande che lo apprezza prima per il canto e poi per la passione e l’estro che mette nelle sue incredibili creazioni culinarie.

Gianfranco però non è soltanto, come lo chiamano, “il cantante pizzaiolo”, ma è l’espressione perfetta delle dinamiche che creano la magia napoletana nel mondo: il cibo, la musica e la passione. Quando chiacchieriamo sulle sue incredibili avventure professionali con molta umiltà mi dice di essersi accompagnato a grandi nomi della musica per puro volere del destino. Da Beppe Vessicchio, grande direttore d’orchestra e arrangiatore conosciutissimo, al soprano Maria Luigia Borsi. E le date e i luoghi in cui si è esibito non si contano per la moltitudine e soprattutto per il segno che hanno lasciato in lui. Ha fatto davvero tanto Gianfranco Iervolino ed è probabile, come mi dice, che sia stato proprio Dio ad un certo punto della sua vita in cui era indeciso su cosa scegliere a dirgli “Tu devi cantare e devi fare anche la pizza”. E così è stato. Lo chiamano l’uomo del Vesuvio, perché è riuscito a portare il Vesuvio davvero nel mondo. E sono davvero innumerevoli gli aneddoti che mi ha raccontato.

Gianfranco vorrei che tu mi raccontassi com’era la tua dimensione familiare quando eri piccolo e qual è il primo ricordo che hai legato sia alla musica che al cibo.

Mia mamma ha sempre lavorato in un’azienda che si occupava di calcio e calciatori. Era allo Zeus sport, con Salvatore Cirillo, ma lei era il deus ex machina e apriva, organizzava e inaugurava tutti i capannoni. Una donna molto dinamica. E quello che ricordo (e che anche lei si ricorda molto bene) era soprattutto quando tornavo a casa dall’alberghiero. Pensa che il papà di Antonino Cannavacciuolo, Andrea Cannavacciuolo, era il mio professore di cucina. Allora io avevo sempre questo pensiero fisso di non dimenticare il piatto che avevamo imparato a fare in classe e quindi, appena tornavo da scuola mi mettevo subito in cucina e lì dopo un po’, non si capiva davvero più niente. Dovevo fare le crostate le torte e ti lascio immaginare un ragazzino di quattordici anni  che cosa poteva combinare in quella cucina. Il ricordo che ho invece legato alla musica è quando ho iniziato a cantare. Ero timido e mi vergognavo molto di farlo, soprattutto davanti a mio padre (che già cantava con Enrico Schiano, un grande Maestro che ha scritto “Mi sono innamorato di te” tutti i brani che cantava anche Mario Merola). E mio padre cantava veramente bene e andava spesso anche nelle televisioni private come Telecapri dove si facevano molte gare di canto, delle vere e proprie corride. E papà quando tornava portava sempre una coppa o una medaglia a casa. E per me lui era una vera e propria icona. Io invece fin da ragazzino ho cantato sempre Sergio Bruni. Certo se mi chiedevi di fare “Sapore di mare sapore di sale” quando c’erano i falò sulla spiaggia, io te la sapevo pure fare, solo però che poi tutti, presi dalla musica se ne andavano appartandosi con le loro ragazze mentre io restavo da solo davanti al fuoco con la chitarra in mano. E allora ho capito che la mia vita era altro con la musica. Così ho iniziato molto giovane ad esibirmi al Caffè dei Nobili a Napoli, poi essendo per natura sempre molto intraprendente, e amando il gusto della vita, ho fatto spettacoli dappertutto ma ho fatto sempre delle cose belle. Figurati che quando ero a Pomigliano dei carabinieri con il colonnello colpiti dai brani che avevo portato in scena, mi hanno fatto subito socio onorario dell’Arma dei Carabinieri. Infatti ho tanto di placchette da appuntarmi addosso, e questo perché a suo tempo, il maresciallo Balzano e il maresciallo Scognamiglio decisero di volermi premiare come eccellenza napoletana. Della mia infanzia poi ricordo anche che avevo un amore profondo per la Chiesa. Pensa che avevo deciso di diventare sacerdote, ma mio padre non era tanto d’accordo. Ed ero talmente convinto che sono stato anche al seminario minore di Casoria e al Colle di sant’Alfonso. Perché poi dai nove ai dieci anni ero sempre all’altare e a fare il capo ministrante. L’ho fatto per cinque anni tanto che mia sorella, quando si è fatta la prima comunione aveva me che servivo messa. La mia vita è stata piena di periodi fatti di passione per qualcosa. Ma c’è un personaggio che sempre mi accompagna e che rappresenta quello che ho sentro e lo vedo tutte le mattine, quando apro l’armadio. Si perché oltre alle camicie e giacche e pantaloni, sul lato destro ho il vestito di Pulcinella, perché ogni tanto nei miei spettacoli faccio anche il Pulcinella che ritengo sia il simbolo assoluto nostro della grande Napoli e in sostanza del grande sacrificio.

Ai tuoi figli che cosa spieghi e cosa hai insegnato attraverso l’esperienza di tutte queste tue mille vite?   

Il gigante buono di  diciassette anni sta facendo il quarto anno dell’istituto alberghiero. Si chiama Fiore Angelo e quando ne aveva tredici mi ha confidato che avrebbe fatto il mio stesso percorso professionale. La più grande ha ventidue anni e vuole fare il medico, anzi il neurochirurgo. Quello che ho cercato di insegnargli è stata la consapevolezza che nulla è sicuro e nulla ci è dovuto, ma che molto nasce dal sacrificio. Ci sono stati periodi in cui avevamo poco e altri in cui si stava bene, ma questo non cambia le cose. Bisogna dare l’importanza giusta a tutto e soprattutto ringraziare il cielo per quello che ci dà, ogni giorno. Io voglio solo il bene e il meglio per i miei figli, e quello che continuo sempre a ripetergli è che io per primo sono partito da zero, dal pane condito e anche se adesso la mia pizza è famosa nel mondo questo non cambia il gusto vero che ha la vita e che molte volte assomiglia a quello del sacrificio. Poi però la “scugnizzaggine” che è dentro di me mi porta a saltare anche questo ostacolo e a guardare con grande intensità e fiducia al futuro che ci aspetta.

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