Qualcuno avrà subito pensato di giocarseli, altri proveranno ad interpretarli. Inutile sommarli o sottrarli, moltiplicarli o dividerli, così come cambiarne il verso o la sequenza, togliere le virgole per mettere dei punti o tentare la sorte con combinazioni di prefissi telefonici nella speranza che qualcuno di importante spunti dall’altra parte. Come sarebbe errato vedervi del resto semplicemente dei numeri.
18, 28, 38, 48: la mia trasposizione in numeri di precisi momenti che scandiscono il percorso di due Paesi straordinari, l’Italia e il Giappone, attraverso mini cicli storici decennali. 1988, 1998, 2008, 2018: un percorso lungo trent’anni in cui italiani e giapponesi, mai nessuno come loro, si sono tenuti così intensamente per mano e al tempo stesso si sono spinti l’un l’altro, per volontà o per incertezza, in un baratro di contraddizioni, fallimenti e inganni. Quando nel 1988, all’età di 18 anni, decisi di iscrivermi all’Istituto Universitario Orientale di Napoli, segnando per sempre il cammino della mia vita privata e professionale, il Giappone era in piena bolla economica (solo l’area del Palazzo imperiale valeva quanto l’intero stato della California), l’Italia viveva l’epoca d’oro delle grandi sponsorizzazioni culturali da parte dei generosi magnati giapponesi e le imprese italiane godevano di enormi profitti derivanti dall’export verso il Sol Levante. Al compimento dei miei 28 anni, nel 1998, osservavo quello stesso Giappone, dal mio ufficio di Ebisu Garden Place a Tokyo, sgretolarsi sotto i colpi dei bad loans e dello scoppio quasi programmato della grande bolla, con la conseguenza che in Italia non arrivavano più ordini, diminuivano le grandi sponsorizzazioni e cominciavano a non quadrare più i conti. Nel 2008, nel pieno dei miei attivissimi 38 anni, Italia e Giappone vivevano una fase di stallo, euro e yen stentavano a parlare la stessa lingua e così, improvvisamente, anche italiani e giapponesi. Tutto era più lento, più difficile, più complicato, tanto da pensare che più che un problema di comunicazione fosse come se i giapponesi avessero imparato, se non a parlare, sicuramente a pensare come noi. Occorreva aggiornare le strategie di approccio a tutti i livelli del sistema di interazione internazionale, culturale e commerciale.
Qualcosa sicuramente è accaduto ma il tempo si è rivelato più veloce di tutti, così ricorderò il 2018 dei miei 48 anni come l’anno che mi ha portato al 2019 e che mi porterà al 2020, perché in Italia (ma soprattutto in Giappone) oggi non si guarda più a chi, cosa e dove siamo, ma a chi, cosa e dove siamo proiettati. Oggi vali per ciò che dimostri (o fai credere) che varrai in un futuro prossimo, per cui devi essere aggiornato, collegato e preparato. Aggiornato su tutto, anche se male, collegato a tutto, anche se fa male, e preparato a tutto, in particolare alle sfide continue della globalizzazione, dello sviluppo tecnologico e della consapevolezza di un sempre maggiore disagio sociale. Il ciclo decennale si è concluso, si fa un salto di tre anni ogni nuovo anno e si comunica realmente solo con chi dimostra di essere già proiettato in quella dimensione temporale e concettuale. Si guarda l’Italia che è, si parla dell’Italia che sarà, ma si lavora per un’Italia che non si sa come e quando arriverà. È lo stesso per il Giappone. Giusto o sbagliato che sia, il presente con tutto ciò che contiene, persone e cose, sembra essere un argomento ormai troppo banale o troppo grave da poter affrontare, che ci si trovi davanti ad un buon caffè o ad una salutare tazza di tè verde.
Compiuti i 49 anni vedo, oggi, due Paesi straordinari tenersi nuovamente per mano come in tempi passati, rispettandosi e amandosi nel profondo come è sempre stato, tanto che poter partecipare a questo ritrovato idillio da uomo e imprenditore adulto mi lusinga e mi gratifica. Ma vedo anche due Paesi più grandi, più maturi, più attenti, che nel condividere mano nella mano questo nuovo cammino, con l’altra stringono forte e sapientemente il resto del mondo, consapevoli che, per quanto proiettati al futuro e ricchi di un’eredità millenaria, è proprio il mondo con le sue dinamiche ad essere il loro sempre presente.
di Riccardo D’Urso